martedì 31 luglio 2007

Capitolo VIII


Punto di svolta


Un cobra prima di sferrare il morso mortale, si aggira per la selva silenzioso, non gonfia il collare, non sibila, non si erge minaccioso.
Alfredo Santojanni sapeva far questo, sapeva addentrarsi nei meandri della società silenziosamente, avvicinandosi alle proprie prede senza che queste si accorgessero del veleno che lui avrebbe inoculato nella loro vita.
Seamy , Rank, Marta, Giorgio Cantinari, Aurora, persino la piccola Sofia, erano tutte vittime sue, tutti piccoli ratti di cui si stava nutrendo.
“Ancora qualche ora, Adelaide, ed il cerchio si chiuderà”.
Mentre si rimetteva in ordine Adelaide pensava alla grande quantità di soldi che questa storia le avrebbe fruttato, e al potere, unico dio che sia lei, sia Alfredo adoravano.
Era stato facile abbindolare quell’ammasso di disperati e drogati, Rank e Seamy, due fratelli mentalmente instabili, che si facevano di qualsiasi sostanza potesse aiutarli a diventare più cattivi, Marta, un’idiota, asservita e sottomessa, incapace di prendere una decisione di qualsiasi tipo; con astuzia e qualche promessa Alfredo era riuscito a convincerli che rapire la piccola Cantinari sarebbe stato un affare per tutti: il ratto pensa sempre di essere libero anche negli istanti successivi al morso.
Ora tutto stava andando nel migliore dei modi: quella povera disgraziata di Marta stava addirittura riportando la piccola a casa e Seamy era ad un passo da farle saltare le cervella.
Dalla finestra dell’ala ovest di villa Cantinari i due démoni vedevano avvicinarsi Marta, e la piccola Sofia che a stento teneva il passo nervoso, dietro di loro arrancava la vecchia gattara miliardaria.
Ad un tratto dall’altro capo del viale, un’auto a grande velocità punta le tre donne.
“Seamy rallenta! Le ammazzi così! Ci ammazziamo così!”
In un attimo, pochi fotogrammi, stridore di pneumatici, polvere,odore acre.

Il giorno dopo i giornali riportavano la notizia: “strage a villa Cantinari, in un tentativo di rapimento due malviventi investono la piccola Sofia Cantinari e la sua tata. I due attentatori muoiono nell’impatto dell’auto contro una grossa quercia del giardino, la tata, la signora Marta Zupanovic, è stata sbalzata assieme alla piccola Sofia. La donna muore sul colpo, la bambina è ricoverata in rianimazione all’ospedale Sacro Cuore.
Ad assistere alla scena l’anziana zia, la quale non ha rilasciato nessuna dichiarazione.”

Aurora era furibonda, tutto quel clamore, quei fari puntati sulla sua famiglia la indignavano.
-“Avremmo preferito una soluzione meno tragica di questa vicenda, onorevole.”
-“Signora Cantinari, lei capisce da sé che è stato tutto assolutamente imprevedibile; le nostre fonti ci avevano avvisato che si trattava di squilibrati, ed in questi casi è difficile prevedere le mosse. Ad ogni modo la piccola Sofia, anche se in gravi condizione è fuori pericolo, e questo mi sembra la cosa più importante non trova?”
-“Certo- rispose Aurora- ha comunque svolto un buon lavoro, onorevole, le siamo grati, avrà come avevamo concordato, quello che desidera, ma mi raccomando, metta tacere tutti questi giornalisti.”
Alfredo Santojanni era soddisfatto: aveva morso tutti i topi i quali, uno ad uno stavano soccombendo al suo veleno.

Sofia era intubata, respirava a stento, sul suo viso e sul suo corpo macchie viola d’ematomi; i dottori tuttavia avevano sciolto la prognosi, la bambina era fuori pericolo, ci sarebbe voluto un po’ di tempo, ma sarebbe guarita.
All’ospedale, accanto a lei, c’era solo la zia Alice, le accarezzava la testa e ripeteva litanie, quasi stordendosi per non avvertire il dolore, quasi pregando per allontanare forze maligne.
-“Zia grazie, ora puoi andare”- disse Aurora con un tono garbato ma freddo-“resto io con la piccola, aspetto che passi il medico per il controllo”.
Alice la guardò senza dire nulla, per lunghi attimi fissò i suoi occhi, immerse la sua anima nello stagno secco di Aurora, capì che doveva parlare, doveva dire quello che era stato veramente, doveva preservare qualcosa di quella famiglia, le trame colorate assunsero nella sua mente sembianze di un arazzo, si intessevano disegnando le scene delle loro vite, un ultimo capolavoro, come quello di Bayeux.
“Io so-disse l’anziana zia-io so tutto”.

domenica 22 luglio 2007

Capitolo VII

In medias res

Il lungo viale in terra battuta che conduceva a Villa Cantinari e gli alti cipressi ai lati della strada avevano assunto, nella luce del tardo pomeriggio, un’aria densa, quasi da quadro a olio.
La polvere che il vento leggero faceva alzare dal viale partecipava a creare questa atmosfera sospesa, surreale, anche se Marta non ci badava.
In una giornata normale non avrebbe perso tempo a notare questi dettagli, quindi, in un momento come quello presente, era ancora meno disposta a lasciarsi distrarre da queste sciocchezze, assalita com’era dal pensiero che Seamy e Rank dovevano ormai essersi accorti della loro fuga.
L’ansia aveva finito di dilaniarle la bocca dello stomaco e aveva iniziato a morderle le ginocchia che, tremanti, si piegavano ad ogni passo.
Nonostante ciò, Marta continuava a camminare abbastanza speditamente: ora doveva affrontare una lunga serie di problemi. Il primo di questi era senza dubbio il confronto con la famiglia Cantinari e sapeva bene che non sarebbe stato facile, avrebbe pianto, ne era certa.
Subito dopo, nella lista delle cose da affrontare c’era l’opprimente presenza di Seamy, l’uomo che aveva creduto di amare e che era senza dubbio già partito al loro inseguimento.
Marta poteva quasi sentire il fiato di quel mostro senza scrupoli lambirle il collo e con questo pensiero aggrappato alla coscienza, si voltò di scatto per guardarsi alle spalle. Sul viale non c’era nessuno se non Alice Cantinari che arrancava appena qualche passo dietro di lei.
Marta, persa tra i suoi cupi pensieri, aveva quasi dimenticato la presenza dell’anziana signora e a quel punto rallentò il ritmo della sua camminata per lasciarle il tempo di coprire la breve distanza che le separava.
«Ho sempre pensato che fossi una donna forte» disse la donna mentre le si affiancava «e invece hai accettato di partecipare al rapimento di Sofia» continuò guardandola con disprezzo «alla fine, però, ti sei tirata indietro proprio quando le cose cominciavano a mettersi bene per voi. Non capisco».
Il suo sguardo era carico di rimprovero e tanto più i due piccoli occhi azzurri continuavano a rimanere piantati in quelli di Marta, più lei sentiva montarle dentro il disagio.
Marta non riuscì a sopportare ancora a lungo quello sguardo e volse la sua attenzione a Sofia, qualche metro più avanti. La bambina, finalmente libera dalla sua prigionia e ignara dell’ombra cupa di Seamy e Rank che ancora gravava su di loro, correva verso la villa, felice di poter riabbracciare la sua famiglia.
«Non rispondi, eh?» proseguì Alice con un tono sempre più aspro.
«E cosa dovrei dire?» rispose Marta con tono altrettanto sprezzante.
«Potresti cominciare con lo spiegarmi come mai hai cambiato idea. Perché hai tradito Seamy e sei fuggita con Sofia?» il tono di Alice aveva cambiato forma e colore, da gelido e rosso sembrava si stesse lentamente addolcendo, doveva essere stata la presenza del nome di Sofia nella frase.
«Mi è venuto in mente all’improvviso un pensiero» rispose Marta, adeguando il suo tono a quello di Alice «Ho pensato che in fondo serve così poco a far felici le persone e, nonostante sia una cosa così semplice, nessuno lo fa mai. Tutti troppo presi a guardare alla propria di felicità».
Alice si sorprese per questa risposta, evidentemente si aspettava qualcosa di diverso.
Dato il silenzio dell’anziana signora, fu Marta a proseguire.
«Chi è Adelaide Ametisti?»
«Adelaide è una persona che penso possa aiutarti ad uscire da questo pasticcio. È l’unica persona che conosco che abbia ascendente su mio fratello Giorgio. Nemmeno la povera Lara aveva un tale potere» rispose Alice «Prima, però, bisogna sentire che cosa intende fare Aurora» e così dicendo accennò con la testa all’enorme villa che si stagliava in fondo al viale alberato.
Le due continuavano a camminare e Marta rimase in silenzio, in attesa che Alice continuasse a parlare: era chiaro che doveva aggiungere qualcosa, come infatti avvenne.
«Avrà sicuramente telefonato all’onorevole Santojanni. Aurora è convinta che quel viscido polipo sia in grado di risolvere ogni problema. Coinvolto com’è fino ai capelli in tutti gli ambienti, ha amicizie ovunque» Alice si pentì immediatamente di essersi sbilanciata con un giudizio così marcato, anche se era davvero ciò che pensava.
«Alfredo Santojanni?» domandò Marta sconcertata, senza notare l’imbarazzo di Alice.
«Sì, proprio lui» rispose Alice «credo che tu lo conosca, è passato tante volte a far visita ad Aurora. Sono amici dai tempi della scuola»
Marta ricordava fin troppo bene il suo primo ed unico incontro con “quel viscido polipo”: era stato durante una delle favolose feste a Villa Cantinari.
Non ricordava come fosse riuscita a salvarsi dai tentacoli untuosi di quell’uomo disgustoso, ma poteva sentire ancora il sollievo provato quando era riuscita a sfuggirgli.
Nonostante il lento incedere, erano ormai vicine alla villa. Entro poco, se Sofia avesse iniziato a chiamare il nonno o la madre, tutti gli abitanti della casa avrebbero saputo che la bambina stava tornado a casa: dalle ampie finestre sulla facciata non potevano ancora averle viste percorrere il viale che costeggiava l’enorme giardino, nessuno si affacciava mai da quella parte.

E invece, proprio dietro quelle finestre qualcuno era in attesa del loro arrivo.
Aveva seguito ogni loro movimento sul lungo viale alberato e attendeva il loro arrivo già da parecchi minuti, tenendole d’occhio attraverso i vetri.
Dal viale nessuno avrebbe potuto vederlo, il sole al tramonto rifletteva i suoi ultimi raggi sui vetri degli ampi finestroni, nascondendo l’uomo alla vista di chiunque si trovasse all’esterno della villa.
«Ero proprio sicuro che avrebbe riportato la bambina a casa, questa Marta è davvero stupida!» disse l’uomo voltandosi verso la donna seduta sul divano.
«Per fortuna quei due idioti mi hanno telefonato prima di fare qualche cazzata!» proseguì lui «pensa che stavano andando alla stazione armati fino ai denti! Lo dicevo che non bisognava fidarsi».
A questo punto la donna alzò lentamente lo sguardo dalla rivista che teneva aperta sulle ginocchia e si volse al suo interlocutore con un ampio sorriso di scherno.
«Hai iniziato a dirlo solo quando la situazione ti è sfuggita di mano, come al solito» lo sguardo che rivolse all’uomo la diceva lunga sull’idea che aveva di lui.
Tuttavia lui rimase impassibile, era abituato a quelle critiche inutili. Non erano queste che lo facevano arrabbiare. Piuttosto si infuriava perché si rendeva conto che, nonostante il prestigio dato dalla sua posizione, aveva un potere limitato su quella creatura affascinate, seduta sul divano a pochi metri da lui. Questo lo mandava letteralmente in bestia. Sapeva bene che darle soddisfazione o magari farla arrabbiare, rispondendole come avrebbe meritato, non avrebbe fatto altro che diminuire ancora di più il suo grado di controllo su di lei e questa era l’unica ragione per cui preferiva ignorare quello sguardo insolente e così seducente.
Non ricevendo soddisfazione per quella che riteneva essere stata una brillante provocazione, la donna cambiò tono «Quindi stanno arrivando?» disse eccitata, per poi aggiungere a voce più bassa «Marta e la bambina?»
L’uomo si accostò alla finestra e rispose «Sono insieme alla zia, alla vecchia gattara»
La donna trasalì. «Zitto! Ma sei impazzito?» disse guardandosi intorno come se da un momento all’altro qualcuno potesse irrompere nella stanza. Dopo essersi assicurata che nessuno li stesse ascoltando, aggiunse «Per quanto non la ritengano tanto intelligente, a nessuno di loro» e a questo punto fece un cenno con la mano volto a comprendere la stanza, la casa, il giardino, la tenuta intera «piace che se ne parli male! La zietta finanzia un bel po’ delle attività di famiglia, lo sai meglio di me!»
L’uomo annuì bruscamente e si voltò verso la finestra, dandole di nuovo le spalle.
Alla fine, con quel tono da maestrina e nonostante i suoi profondi occhi blu, Adelaide era riuscita a farlo incazzare.

mercoledì 18 luglio 2007

Capitolo VI

Nervo

Il pugno chiuso di Seamy. Questo è quel che ricordo.
Lo ricordo da prima. Molto prima che si alzi e venga tagliato dalla luce, in quel preciso pomeriggio di novembre.
Ha un che di sinistro, il pugno chiuso di Seamy.
Mio fratello è un nodo. Un nodo scuro di nervi che non ne possono più. Da anni ormai ha le spalle curve, se le sente schiacciate da qualcosa di vaporoso e pesante, di interminabile e antico. Si chiama dolore. Si chiama accorgersi di aver vissuto sempre in maniera sbagliata.
Da quando ha ucciso il cane della signora Caine tutto è andato distruggendosi, rincorrendo gli eventi a una velocità incontrollabile.
Il cane della signora Caine era un bastardello mezzo grigiastro. Aveva le pupille di fuori e la bocca bavosa sempre piena di latrati. Dall’alba al tramonto. Senza un secondo di sosta. La signora Caine era quasi del tutto sorda. Mio fratello, invece, di solito aveva mal di testa. Ce l’aveva sempre e sempre. Dall’alba al tramonto.
Un giorno che i miei non c’erano e io ancora giocavo con i soldatini nel fango davanti casa. Questo è quel che ricordo. Poteva essere la fine dell’estate, qualche giorno prima che si ricominciasse ad andare a scuola. Quando le braccia ti si gelano in fretta.
Per me i latrati di quel cane erano un ottimo effetto sonoro per le bombe o le sirene, le volte che giocavo con i soldatini. Ma per Seamy erano un trapano piantato nelle tempie. Dall’alba al tramonto. Quel giorno che i miei non c’erano Seamy si accorse per la prima volta della parete di rabbia che lo rivestiva internamente. Non che fosse proprio colpa di quel cane, ma quei latrati continui erano stati come il ferro del dentista sul nervo infiammato. Quando l’uncino del dentista ti sfiora quel nervo vorresti prendere a morsi il mondo. Non appena quello leva la mano da dentro la tua bocca vorresti strappargli gli occhi con le unghie. Ma non lo fai, solo perché, riuscendo a ragionare, capisci che la colpa non è sua. Che il nervo che fa male è tuo e solo tuo.
Il cane della signora Caine ci dava le spalle. Quando il mio generale verde stava per dare l’ordine ai carri armati di intervenire da sud-est sentii mio fratello sfrecciarmi accanto, un lampo di luce nella sua mano e poco dopo lo vedevo tornare sporco di rosso. Il cane, fermo in un angolo del giardino, aveva smesso per sempre di latrare.
Poi è stata tutta in discesa. Io avrei potuto vivere un tempo migliore di lui, avrei potuto sentirmi orgoglioso di qualcosa. Ma ho preferito stare accanto a mio fratello. I suoi mal di testa sono mal di cuore. E il cane della signora Caine non c’entra niente.

Il pugno chiuso di Seamy. Questo è quel che ricordo. Il suo pugno mentre torna indietro stringendo il coltello da cucina insanguinato. Lo stesso pugno che ha alzato spesso contro di me. Quello che ora, in questo pomeriggio di novembre, mi raggiunge il naso con tonfo sordo.
Come hai potuto farle scappare?
Avrei potuto rispondere che ero con lui, che in quella macchina c’eravamo entrambi. Che a scappare era stata Marta. Che non era colpa mia. Ma il sangue dal naso mi ha bloccato il respiro e ho tossito rosso. Ecco tutto quello che sono riuscito a fare. Ho tossito rosso.
Scusami, sono riuscito a dire.

Seamy ha preso il fucile più grosso, quello con di papà. Quello per le occasioni speciali. C’è voluto il mio cervello lucido, pure. Da dietro al fazzoletto, con voce nasale gli ho detto di tornare indietro, che andare a piedi non serviva.
Poi una sorta di premonizione: avranno preso un pullman. Possiamo andare alla stazione a cercare.
Le ammazzo.
Sapevo che alla stazione avremmo trovato notizie di Marta e della bambina. E sapevo che Seamy aveva un fiuto infallibile. Ne avrebbe sentito l’odore. Il suo orecchio, poi, abituato ai latrati del cane della signora Caine, non aspettava altro che di sentire ancora quello di Sofia. Come un richiamo lontano. Sapevo che il pugno chiuso di Seamy le avrebbe raggiunte, questa volta stringendo un fucile. Ancora sangue.
Seamy.
Cosa?
Potremmo cercare soldi altrove.
Il secondo pugno è stato più forte. Ma i nasi da rompere erano finiti.
Le ammazzo, Rank. Lo sai meglio di me. Maledetta puttana.
Nascondi il fucile, è sempre pieno di sbirri, vicino alla stazione.
Maledetta puttana.

Il nervo è tornato a far male.

martedì 10 luglio 2007

Capitolo V


Stoffe keniote

Marta aspettò qualche minuto per essere certa che Seamy e Rank non stessero per picchiarsi nuovamente.
Rank parlava poco, ma i suoi gesti e quelle rare parole, erano vere e proprie armi. Una guerra nella guerra.
E Marta aveva le mani alzate da anni, ormai.
Prese in braccio Sofia, che sembrava improvvisamente serena, quasi comprendesse l'inquietudine che Marta lasciava trapelare da ogni sospiro.
La macchina di Seamy e Rank era ormai lontana.
Marta si fece coraggio ed aprì la porta di casa.
"Sofia, adesso devi promettermi che non emetterai un suono, che starai in silenzio come facevamo a casa di tuo nonno, quando giocavamo in giardino."
La bambina annuì, accennando un piccolo, debole sorriso.
L'autobus sul quale salirono era vuoto. C'era solo una vecchia signora che aveva lo sguardo perso nel vuoto, oltre il finestrino.
Sofia stringeva la mano di Marta, che aveva il volto rigato dalle lacrime. Piangeva senza alcun rumore, o sussulto.
Quel pianto cullava consapevolezza, rimorsi, e tanti altri sentimenti da troppo inesplorati. Per Marta quel momento era come un ospite atteso da ore che finalmente suonava alla porta.
Seamy l'avrebbe ammazzata se solo si fossero incontrati di nuovo, e non era un modo di dire. L'avrebbe picchiata, e picchiata ancora. Seamy poteva uccidere, Marta ne era certa, ma non aveva più paura.
O forse, più semplicemente, non voleva più averne.
"Grazie" sussurrò Sofia.
Marta trasalì quando sentì quella parola. Sei lettere pesanti come grandine.
Fu un regalo. Un altro ospite atteso che bussava alla sua porta.
Su quell'autobus vuoto, Marta sorrise dopo anni.



Alice Cantinari, la sorella di Giorgio, amava le stoffe. Di qualsiasi provenienza: inglesi, cinesi, africane.
Amava i colori, le trame dei vestiti, ma anche arazzi e carte da parati stravaganti.
Era considerata la più frivola della famiglia, da tutti. Anche sua nipote, Aurora, la riteneva sciocca, affatto brillante. Lei ne era consapevole. Le sembrava quasi di udirli certi commenti, ma non se ne era mai preoccupata più di tanto.
Alice Cantinari era serena. Ed era l'unica della famiglia ad esserlo.
Nè Giorgio, nè Lara, nè Aurora erano sereni. I Cantinari erano persone tormentate, da generazioni.
Ma Alice era diversa, e quella diversità dava molto fastidio ai suoi consanguinei.
Quel pomeriggio stava passeggiando vicino casa di suo fratello, quando vide da lontano una donna che teneva per mano una bambina.
Lei le conosceva bene entrambe.
Marta era stata introdotta a Villa Cantinari proprio da Alice.
"Marta!"
Quel nome rimbombò nella via come uno sparo.
Sofia si girò di scatto e urlo "zia!", con la prontezza di un riflesso fisico.
Marta restò immobile mentre sentiva i passi della donna sempre più vicini.
Continuò a darle le spalle, finchè non sentì la voce dell'anziana signora proprio dietro di lei.
Le due donne si guardarono e in pochi secondi Marta capì che la sorella del signor Giorgio non sapeva nulla. Nello sguardo di Alice non galleggiavano interrogativi, non c'era stupore nè rimprovero. Era uno sguardo, solo uno sguardo.
L'abitudine di tenere Alice fuori dalla questioni di famiglia era radicata in Villa Cantinari, quasi quanto l'assenza di affezioni di alcun tipo.
Le domande, superficiali e non interessanti di Alice si susseguivano, mentre Marta si chiedeva quale fosse la cosa giusta da fare.
Contro ogni logica decise di parlare.
Alice era stupida, a volta anche priva di tatto, ma non era come il signor Giorgio, pensò Marta.

"Sto riportando Sofia a casa. L'abbiamo rapita. Io e Seamy."

Una frase secca. Decisa.
Silenzio.
Sofia passava lo sguardo dalla zia a Marta, come fosse una danza.
I lineamenti di Alice sembravano dipinti. La donna rimase immobile.
Il pianto di Marta era colorato, pensò Alice Cantinari.
Marta era blu, blu scuro. Ma non blu notte, ancora più intenso, quasi nero.
E quella storia era grigia, tendente all'argento con riflessi color petrolio.
Marta disse a Sofia di allontanarsi, e le diede delle monete con cui giocare. Poi iniziò a parlare. E non smise finchè non ebbe finito di raccontare tutto, ma proprio tutto.
Era una situazione irreale.
Raccontò di Seamy, di Rank, di quelle lettere, e degli abusi del signor Giorgio.
Dell'incapacità di Aurora di ribellarsi, di amare se stessa e anche sua figlia.
E dell'omicidio. L'omicidio di Marco. Quel Marco, il vero padre di Sofia.
Il Marco che amava le rose quanto amava Aurora.
Il viso di Alice non era più così fermo. I colori erano tanti, troppi. Una trama vistosa, appariscente, scomoda.
Non si parlava più solo di un segreto.
Omicidio.
Quella parola era bagnata di sangue.
La vita era un susseguirsi di accostamenti cromatici buffi, a volte sbagliati, altre sorprendenti.
"Oggi commoventi. Oggi toccanti", pensò Alice.
Ed ebbe una piccola visione.
Pensò ad alcune stoffe keniote, che viste da vicino sembrano macchie di colore accostate senza criterio.
Finché le hai tra le mani, sotto gli occhi, non puoi capirne il disegno. E' quando ti allontani che tutto prende forma. A metri di distanza il disegno è chiaro, e quei colori insieme hanno senso.
Alice si disse che quei colori meritavano un gesto diverso dal solito. Non l'indifferenza di sua madre Lara, nè il freddo distacco celato da formale cortesia di suo fratello Giorgio.
Ci voleva qualcosa di forte.
Marta, asciugandosi il viso con un fazzoletto, attendeva una risposta, un gesto. Non sapeva cosa aspettarsi.
"Ti hanno mai parlato di Adelaide Ametisti?"
Marta non aveva mai sentito quel nome.
"Vieni con me".
Prendendo per mano Sofia, le due donne si incamminarono verso un grande gardino che si scorgeva in fondo alla strada.
"E' questo il momento" disse tra sé e sé Alice Cantinari.
Pensò alla freddezza con cui aveva trattato il lutto di sua nipote, Aurora, e a quanto il carattere di suo fratello fosse contagioso, come una sorta di virus.
Ma quello era il momento. Il famoso "cambiamento" di cui molte persone parlano.
Mentre camminavano Sofia guardò la zia e disse "Andiamo da mamma?".
Entrambe le donne dissero di sì, senza distogliere lo sguardo dal verde che avevano di fronte.
Da lontano sembrava un semplice parco, ma sulla destra si scorgeva un grande albero.
Una bellissima quercia.
La quercia di Aurora.

giovedì 5 luglio 2007

Capitolo IV


Humus


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Caro Marco
io ti chiedo scusa Oggi piove. La vedevo scendere, attraversare le maglie della lana, penetrare le fibre del cotone, oltrepassare la pelle già umida e insediarsi nelle ossa; poi stillava fino a sprofondare nella terra; la pioggia non scivolava sul mio corpo, entrava in profondità e forse lo superava; non ero capace di percepirla. Ero un’ombra sotto quella quercia, seduta sopra il letto di ghiande della nostra collina.

E pensavo Ti vedevo Poggiare le tue braccia sull’erba, come due colonne instancabilmente stanti, sorreggenti il tuo corpo semplicemente adagiato sull’ombra del tuo albero. Potevo assaporare la consistenza delle nuvole dai tuoi occhi; le vedevo passare velocemente.
"Piove."
Incredula osservavo l’avverarsi di quella tua premonizione. Sentivi l’odore della pioggia, potevi percepire in anticipo l’umore del cielo; conoscevi la sete delle tue amate rose e partecipavi all’estasi della tua quercia dopo ogni temporale. Era il tuo lavoro, era la tua passione, era la tua dedizione. Eppure ogni volta fingevo di stupirmi come una bambina affamata di fantasia e in quella percezione gustavo il sapore di una magia antica e vi scovavo le radici di quel fascino che mi aveva resa da sempre succube.

Eccoti sotto la nostra quercia, sulla nostra collina; da mesi la pioggia cerca incessantemente il tuo corpo, le nuvole pascolano rapide nel vano tentativo di specchiarsi nel tuo sguardo; eppure non ti trovano. Solo io posso ancora vederti con la tua salopette infangata poggiare sull’erba le mani segnate dal ricordo delle tue rose. E io ho smesso di sentirla; indifferente mi è la pioggia, immobili sono le nuvole. Percepisco il suo dolore. Vorrei piangere anche io la tua scomparsa. Ma la pioggia mi trapassa e arida rimane la mia anima.

**********

Mio Marco,

Sofia non piange. È brava, sai? Un giorno sarà una gran donna.

La stringo forte al petto; spesso. Credo di soffocarla a volte. Ma vorrei sentirla, Marco, ci provo. Temo che neanche lei possa percepirmi. È cresciuta in un terreno arido. La più florida pianta sa generare un seme fecondo e umido, ma avvizziti saranno tutti i germogli se sterile è il suolo che l’ha accolto.

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Ciao Marco,
sai mio padre

Ho trovato spesso Giorgio prenderla in braccio. Domani partiremo.

La odio. Sì, la odio. Mi ha impedito di raggiungerti.

Guardala. Dorme e sembra serena. Che finga come me? Dannata ingenuità. Non voglio che la perda. Vorrei possa trovare sempre la forza e il coraggio di sorridere. Ho paura che cresca. Che possa sentire la mia rabbia e come me covare l’odio. Devo proteggerla. Non riesco a sentire l’amore, ma posso risparmiarle altro dolore, altro rancore.

Lo faccio per te. Ho causato la tua morte, non avrei mai ucciso anche tua figlia.

Non voglio che lui la tocchi, non voglio che lui la guardi. Non ho saputo proteggere me, non ho saputo proteggere te. Domani partiremo.

**********

Marco non ho potuto. Non sono stata capace. Cinque mesi, solo cinque mesi di liberta? No! Lei ha bisogno della sua casa, della sua collina. Io ho bisogno di te. Tu sei qui, sempre sotto quella quercia ad osservare le nuvole. Sono tornata. Ho dovuto. Non ti ho scritto. Non potevo scriverti.

**********

Non ci parliamo. Un monolite senza anima. Si aggira per casa. Accarezza Sofia e mi lancia sorrisi algidi svuotati di ogni affezione. Ma lo impone il grado parenterale, ovvio! Quella Marta poi è sempre in giro. Potrebbe dire in paese che in questa prigione di stucchi e suppellettili lucidati solo l’indifferenza può placare la nausea! Non sia mai!

Ogni sorriso e ogni carezza sono intrisi di quell’odio che aleggia in questo nostro squallido confino. Perché non ci lascia in pace?


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Sono andata sotto la quercia. Volevo lasciarmi morire. Marta mi cercava perché Sofia era caduta e si era ferita un ginocchio. Non piangeva ma non riusciva a prender sonno. Per farla addormentare le ho assicurato che anche col cerotto domani potrà correre sulla collina, osservare le farfalle e fingere di volare. Sofia deve volare. Ergersi sulle nuvole, apprezzare l’odore della pioggia e imparare a percepirlo. Sdraiarsi con suo padre sull’erba e

Mia zia Alice oggi è venuta a farci visita. Quella stupida governante che infesta questa casa da anni mi ha trafitto con uno dei suoi soliti sguardi di rimprovero pregni di compassione e stizza. Ho fatto cadere l’Earl Grey sul centrino che la zia aveva portato da Anversa dopo il suo ultimo viaggio. Non era rimprovero. Quella donnaccia mi odiava solo perché avrebbe dovuto smacchiarlo. Alice sa essere fredda e insensibile; ma è stupida Marco, non è crudele come suo fratello; è solo ingenuamente stupida.

"Tuo padre mi ha detto che non tornerai a Berna. Non penserai di lasciare l’Università solo per evitare di pensare alla morte di tuo marito?"

La tazza non mi è caduta accidentalmente su quel dannato centrino. Avrei voluto conficcare ogni molecola di quella ceramica dentro la testa di quella stupida; di quella donna che ancora dopo decenni crede a tutte le idiozie che un fratello autoritario e violento sa inculcarle. Ho dovuto lasciare la presa.

Credo che Alice sia consapevole delle bugie e delle menzogne. Anche lei ha paura di quell’uomo. Ne è così intimorita che non riesce e non vuole essere lucida; si forza e pende dalle sue labbra. Anche nei suoi occhi vedo il ricordo della cinghia, dei pugni, delle sedie spaccate; il ricordo delle mille bugie costruite per ristabilire il quadro roseo e incipriato che chiunque, qualsiasi ospite e ogni sudicio membro della servitù avrebbe potuto instancabilmente ammirare. Rivedo anche il ricordo dei pantaloni arrotolati alle caviglie e del soffitto color panna che accoglieva le ultime preghiere di una creatura agognante un fulmineo trapasso.

"Realmente credi che sia stata in Svizzera e mi sia sposata con un mio collega? Posso comprendere gli stupidi uomini a servizio di tuo fratello che dalla loro meschina natura ammirano e stimano il quadro patinato che egli ha dipinto. Ma tu zia? Possibile che non ti risulti strano che sia sparita per due anni, mi sia sposata senza invitare te né nessun altro della famiglia e che poi sia tornata dopo che mio marito ha avuto un incidente stradale per portare a compimento la mia gravidanza qui a Villa Catinari, noto luogo pieno d’amore dove far nascere in piena serenità una creatura indifesa?"

Ma non le dissi nulla e mollai la presa. Il the si rovesciò e Marta, colta nell’imbarazzo causatole da quella domanda indiscreta, riuscì a nascondere con quello sguardo pieno di disapprovazione la sua vergogna.

Gli estranei sì!. Nessuno avrebbe dovuto non dare adito a tali sciocchezze. Giorgio è bravo a mentire. A far credere. A farti sentire colpevole, sbagliata. A giustificare ogni azione nefanda e a dipingere. Ma mia zia no!

Ma la sua mente era obnubilata dalla paura per poter porgere domande e persino per maturare l’innata curiosità insita in ogni essere umano. Persino io avrei …è naturale; nessun articolo di giornale, un certificato, una foto..anche io avrei azzardato. Non a lui, sia chiaro. Ma a me avrei chiesto. Non è solo il timore; mia zia è proprio stupida!

L’odio e la stupidità mi hanno spinto, Marco; non avrei voluto lasciare Sofia in balia del nulla; volevo solo perdermi ancora nelle tue braccia. Ma lei mi ha salvato. Ci sono istanti in cui penso che sia caduta di proposito. Non è come me; assomiglia al suo bellissimo padre; lei è capace di sentire, sa fingere di volare.

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Son passati tre anni dall’ultima volta che ti ho scritto. Sofia ha imparato a piangere. Io ancora non ci riesco. Veniamo sempre ai piedi della nostra quercia e lei è felice. Senza un apparente motivo valido Sofia si è innamorata di quell’ angolo di mondo, di quella piccola oasi all’interno di questa arida prigione. Ama tutto di te senza sapere chi sei, senza sapere cosa sei mai stato e che anche tu ti sedevi sull’ombra e fissavi le nuvole, distratto a volte dalle farfalle che sicure ti giravano intorno, e padrone della radura che si estendeva ai piedi della collina fingevi di volare. Lei è tua figlia e ne sono certa; non ho mai avuto dubbi; a volte mi si è paventata la muta idea che possa essere stata concepita nel giorno della tua morte. Ma non v’è stata una reale possibilità, è solo un fantasma, l’incubo di quel’orrido istante ormai lontano che mi perseguita e mi perseguiterà sempre. Sofia è nostra, come questa quercia, questa collina e come te lei sente la pioggia.

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Giorgio sembra affezionato a Sofia. Scusami Marco, perdonami se non riesco a tenerlo lontano dalla sua vita. Vorrei urlare ogni volta che quell’assassino la tocca. Ma non ho mai saputo ribellarmi se non con l’indifferenza. Mi sta rubando anche l’odio e il rancore; sono prosciugata e invano vorrei sentire anche io la pioggia.

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Vado a New York. Portò con me Sofia. Ma l’estate torneremo qui, e anche in tutti i momenti possibili, dovessi passare metà della mia vita in viaggio, ti prometto che la porterò da te, la porterò a casa tra le tue braccia, sotto la quercia.

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Perdonami. Perdonami Marco. Non ti tradisco, non mi scordo. Questa volta non porterò Sofia con me. Lei ha bisogno di te, sente la tua mancanza anche se non lo sa. Non voglio che sfiorisca come me; desidero che possa immergere le sue radici nella tua anima e non nel suolo arido che l’ha concepita.

Quest’autunno la lascerò con suo nonno. Non le farà del male. Non la toccherà. E poi Marta la tratta come una figlia e le sta sempre addosso, troppo addosso. In fondo quella donna stupida con la sua presenza a volte ha salvato anche me quando ero piccola. Ma Giorgio non si azzarderebbe mai più a toccarla, non dopo che le ha ucciso il padre. Non dopo che la sua ultima violenza ha avuto esito così nefasto.

Quel giorno…erano anni che Giorgio non provava…erano anni che non fissavo il soffitto chiedendo al tuo sordo dio di uccidermi. Giorgio era solo infastidito, non capiva come io potessi provare dell’amore per qualcuno…era invidioso Marco; lui non è stato mai capace di amare. E adesso sua figlia, nata da terra sterile, era in grado di conoscere l’amore e sentire il calore e le cure di un’altra anima. Non sopportava l’idea che potessi trovare in te quel terreno fertile che lui non era stato in grado di essere. Non ricordo come…ma impazzì e io rividi il soffitto e implorai ancora dopo più di dieci anni nei quali non avevo dovuto pregare. Non voleva farti del male, ma tu ti fiondasti su di lui e forse l’avresti ucciso se lui…

Marco perdonami. Non farà del male a Sofia. Ma io non posso restare qui con lui… tornerò a prendere il nostro bocciolo tra qualche mese… dopo Natale ritornerà con me a New York… adesso la affido a te.

Mandami la pioggia, mandami il tuo vento e io correrò qui e volerò via con lei.

*********

La carta si inumidiva lentamente mentre Aurora scriveva l’ultima lettera. Non ne aveva scritte tante. Più volte provava a parlare con Marco, a scrivergli, a dedicargli la sua vita. Ma ogni volta il rimorso, la paura, il senso di colpa la atterrivano e l’arrestavano. In passato correva verso la colina e gli parlava. Lo faceva quando portava in grembo quella creatura e le faceva sentire la pioggia; sotto la quercia prendeva la forza per dipingersi quella posata tristezza e quel contrito dolore per un fortuito incidente di macchina che le aveva strappato l’amato e fantomatico marito svizzero. Tornava alla collina per presentare Sofia al padre e per sfuggire dalla prigione e fuggire agli sguardi di quel carnefice e di quel suo padre che la natura crudele aveva imprigionato in quell’arido monolite. Trascorreva ore, giornate insegnando alla figlia a volare e cercava anch’ella di guardare la radura e fingere di librarsi in volo, ma non ne era capace; così cominciò a fingere anche con la figlia, dissimulando la sua stessa finzione. E quando tornava in carcere in quel carcere di suppellettili e stucchi dorati doveva scrivere , per non perdere il contatto con la sua forza e con quell’uomo che era stato il suo mentore e la sua vittima. Erano anni che non scriveva e si sentiva ancora più assassina del padre. Giorgio l’aveva ucciso con un alare lei lo stava seppellendo dietro la paura del ricordo.

Scrisse di getto perché il rimorso di quell’abbandono momentaneo le sapeva di tradimento. Portava con sé sempre tutte le lettere che scriveva a Marco, perché in esse insieme al rimorso si celava la sua unica forza e la sua libertà. Giorgio era andato in città per degli affari e in casa non c’era che la servitù. Fuori pioveva e Sofia dormiva; l’avrebbe condotta più tardi alla collina per sentire l’odore della terra bagnata; mentre attendeva che si destasse si rinchiuse nello studio del padre e aprì la piccola cartella nella quale erano contenute le lettere. Allungando la mano le parse di sentire un piccolo brivido ma si allontanò da quel pensiero conscia di non poter percepire e sentire; allungò dunque la mano per afferrare una delle penne di Giorgio e la carta da lettere disposta in modo maniacale sullo scrittoio e, sebbene il pensiero irrispettoso le avesse fatto capolino, chiusa in se stessa cominciò a scrivere.

Rimase per qualche minuto ad osservare le epistole cercando di vedere in esse qualcosa, forse il volto di Marco; le sistemava con cura all’interno della cartellina, in ordine cronologico partendo dall’ultima lettera, scritta nella carta che il padre usava per i documenti importanti, fin quando un rumore la destò dalla catalessi nella quale era dolcemente sprofondata. Marta stava per entrare. Nessuno doveva sapere, nessuno poteva venire a conoscenza del suo mondo, delle sue lettere. Aprì un cassetto della scrivania e vi ripose velocemente la cartella, conscia che avrebbe potuto riprenderla successivamente visto che Giorgio avrebbe fatto rientro solo dopo molte ore.
Vestì la maschera e si dipinse l’algido sorriso.
"Marta noto che non hai ancora pulito lo studio del Signor Catinari."
"Sono entrata per questo motivo, Signora."
"Si sbrighi, allora. Voglio servito il The tra mezz’ora. Vado a svegliare la piccola."


mercoledì 4 luglio 2007

Capitolo III

AURORA CANTINARI

Aurora Cantinari era sola.
Una donna dura, algida, intrattabile, qualcuno l’aveva definita anaffettiva.
Guardava fuori dalla finestra della villa, guardava la quercia, possente e immobile.
Un insieme di dispiacere e fastidio avevano preso il sopravvento sulla sua calma; non riusciva, per quanto si sforzasse, a lasciarsi attraversare dal dolore, come la luce attraversa un foglio bianco, si sentiva inquieta, eppure possente e immobile. Nella sua testa si avvicendavano pensieri alla ricerca di una soluzione della “questione Sofia”, come l’aveva definita, nessuno scandalo, tutto doveva essere sbrigato in maniera indolore, un taglio chirurgico a questa faccenda. La piccola doveva tornare a casa, ai responsabili avrebbe pensato poi. Aurora non tollerava di non avere il controllo di tutto quanto la riguardasse e la “questione Sofia” era irrimediabilmente affar suo.

“Aurora sei ancora qui?”
Giorgio la guardava impietosito, quella sua figlia gli appariva lontana, irraggiungibile, un legame senza affetto li univa, ineludibile figliolanza, vicinanza impossibile.
“Si papà, sono qui”.
Una nuvola di fumo si levò dalla sua bocca.
“Come stai Aurora?”
Aurora spalancò gli occhi voltandosi lentamente verso il padre, stupita, come se quella domanda volesse insinuarsi fra le pietre della sua emotività, scalare la fortezza della sua solitudine, minare l’alta diga, costruita negli anni, che arginava un bacino ormai asciutto.
Nessuna risposta si levò dalla sua bocca, solo un pesante silenzio;
un po’ per durezza, un po’ per stupidità, Aurora non si chiedeva mai come stesse, probabilmente non l’aveva mai saputo, si limitava ad attraversare la vita.
-“Nessuna notizia di Sofia, ancora nulla, come possono pensare di farla franca? Ingenui…Hai chiamato l’Onorevole Santojanni?”
-“No”.
-“Passami il telefono, me la sbrigo da me”.
Aurora compose il numero dell’Onorevole e con la consueta calma, parlò del rapimento di Sofia, non disse nulla di più di quello che era effettivamente accaduto: Sofia era stata rapita mentre era in giardino, in un momento di distrazione della governante, la quale, evidentemente era stata licenziata in tronco.
-“Lei capirà, Onorevole, che la questione necessita della massima discrezione, nell’interesse della piccola, ovviamente, e nell’interesse della famiglia”.
-“Non si preoccupi signora, troveremo la piccola e senza il minimo clamore”.
-“Grazie Onorevole, sapevo di poter contare sulla sua collaborazione”.

Aurora aspirò una lunga boccata di fumo, indispettita, le cose dovevano tornare al loro posto.
Passarono circa tre ore dalla telefonata all’Onorevole, ore che Aurora passò guardando la quercia, quasi in attesa, confuse sensazioni si alternavano nel suo animo, la stizza lentamente lasciava il posto ad un sentimento, un sentimento vero, che non era sicura di poter provare, Aurora era preoccupata, ora non più soltanto di uno scandalo, ma sentiva a poco a poco un’inquietudine crescente per le condizioni della bambina, la piccola Sofia doveva essere spaventata, probabilmente piangeva. Queste immagini scavavano solchi nel suo animo, si insinuavano fra le pietre della sua emotività, un’emotività sopita eppure vivida, Aurora si stava scoprendo madre, forse per la prima volta, le sembrava di partorire quella creatura di nuovo; non era mai stata confusa, proprio in quanto non aveva coscienza di sé, non sapeva di avere, come ogni essere umano, la possibilità di amare qualcuno, la sua bambina soffriva, piangeva, gridava, forse era stata picchiata, sicuramente maltrattata. Un moto di rabbia e dolore affiorava dal suo stomaco, pesante come un sasso, sonoro come una deflagrazione.
-“Aurora sei sempre lì?”
Bastò il suono della voce di Giorgio a farla rinsavire da questi pensieri: il suo volto tornò di gesso, ancora fumo pesante dalla sua bocca, ancora un lungo e pesante silenzio.
Le pietre sono dure da scavare.

domenica 1 luglio 2007

Capitolo II

Fingevo di volare

La piccola Sofia si guardava intorno, incredula. Non riusciva a trattenere le lacrime, scendevano come pioggia e rigavano le sue piccole guance arrossate.

Lo sapeva bene, non doveva strillare, doveva essere forte. Ma aveva assistito a troppe brutte cose, e tutto nei suoi ricordi pesava come un macigno. Tutto sembrava tornare prepotentemente in superficie .

“Vuoi stare zitta un poco, per l’amor del cielo?” le disse improvvisamente una voce femminile proveniente da dietro la porta sbarrata. “Lo sai che siamo nei guai, lo sai che purtroppo non ci piace tenerti prigioniera, ma abbiamo dannatamente bisogno di soldi e questo è l’unico modo per ottenerli.”

Sofia non capiva. Non capiva il mondo dei grandi, non capiva quel ronzio che assordava quella stanza semivuota e non capiva cosa fosse il denaro. Sapeva solo che quando un grande usava quella parola ci si poteva aspettare solo qualcosa di doloroso.

Si accovacciò nello stesso angolo in cui s’era addormentata precedentemente, e sollevò gli occhi umidi verso le fenditure tra le assi. Poteva intravedere piccoli fiori rossi dal lungo stelo e un cielo azzurro che le ricordava tanto casa sua. Quel grande cielo azzurro delle giornate d’estate, passate sotto la grossa quercia, a cantare e a giocare con sua madre. Quei tempi erano davvero troppo lontani, e troppo belli per non fare male. Fu in quel momento che le tornò in mente quel sogno. Tornava sempre, anche nei momenti più strani.

Sognava sempre di essere in cima alla collina, con il suo grosso fiocco verde che le svolazzava sulla testa. Guardava verso il basso, poi verso l’alto e vedeva sempre, ogni volta, piccole farfalle girare una intorno all’altra, come in una magica danza rituale. E una voce sussurrava sempre “Fingi di volare, vola con ritmo e lasciati andare, pioggia e vento non ti potranno toccare.. fingi di volare.” Sembrava una filastrocca, una cantilena detta con estrema enfasi e nel sogno sortiva efficacemente il suo effetto. Sofia sognava di volteggiare su una campagna dal giallo intenso, e il sole non la bruciava, anzi, la baciava con un tepore delicato. Era l’unico momento in cui tutto era in pace, silenzioso, dove si stava bene.

Sofia ripeté tra le labbra “..fingi di volare” e sorrise. Un piccolissimo sorriso tra gocce salate sul dolce viso da bambina.

Il chiavistello sussultò un paio di volte, facendo un grande baccano nella stanza. La porta si spalancò e Marta entrò con un bicchiere di latte tra le mani.

“Sofia, piccola, ti ho portato qualcosa da bere.”

“Non voglio niente.” replicò duramente la bambina, voltando lo sguardo dall’altra parte.

“Devi bere un po’ di latte, vedrai che ti farà bene. Devi metterti un po’ in forze, se vuoi davvero superare questa situazione.”

“La colpa è solo vostra. E io voglio uscire, voglio tornare da mio nonno.. voglio vedere mia madre! Ma perché sono qui dentro, perché siete così cattivi da tenermi rinchiusa in una cantina?” urlò con forza la piccola Sofia, mentre nuove lacrime scendevano dai suoi grandi occhi celesti.

“Io.. io sono disperata quanto te, piccola. Ma la tua famiglia ci deve parecchio, la tua famiglia deve darci del denaro se ti rivuole indietro. Abbiamo fatto anche troppo negli ultimi anni. Abbiamo lavorato per tuo nonno, gli abbiamo accudito la casa e il grande giardino. Sono stata la sua governante per vent’anni, e lui non ne ha mai voluto sapere di essere gentile. Mai. Mi ha sempre trattata con disprezzo, solo perché lui poteva contare sul suo dannato denaro e io sono solo una sguattera cresciuta in provincia. Villa Cantinari è stata davvero un luogo sereno per me, anche se non ho mai veramente avuto un attimo di vera pace.” La donna girò il volto dall’altra parte, fissando il muro, in una sorta di vuota contemplazione. Il suo sguardo era pieno di dolore. Aveva circa quarant’anni e mostrava ancora con disinvoltura la sua bellezza, ma tutta la sua forza d’animo s’era spenta come una fiamma bagnata dalla pioggia. Le piccole rughe d’espressione si erano tramutate col tempo in profondi segni di stanchezza, i suoi occhi color nocciola erano divenuti due vitrei e silenti specchi di una vita assente, non partecipe.

Si sentiva in colpa. Non era il tipo di donna capace di rinchiudere una bambina in una cantina. Ma Seamy le aveva bruscamente ripetuto che “il denaro li avrebbe salvati, avrebbe salvato il loro rapporto, li avrebbe messi in condizioni migliori.”

Sapeva bene che tutto doveva rimanere segreto. Tante volte si era trovata tra le strade del piccolo paese fermando l’impulso di raccontare tutto al primo passante, troppe volte si era trovata ad un passo dalla liberazione, ma, come ben sapeva, era troppo codarda e succube di quell’uomo arrogante per riuscire a fare un passo così rischioso.

Erano già passati due mesi da quando, tra i cassetti dello studio del signor Giorgio Cantinari, erano sbucate quelle lettere in carta filigranata. Delle lettere che sembravano importanti, che erano state riposte con una cura maniacale. Lettere che forse avrebbero dovuto ricevere una collocazione diversa. Non sarebbero dovute capitare nelle mani sbagliate. Marta lo sapeva bene che come brava governante tutto ciò che veniva toccato doveva essere riposto con la stessa cura iniziale. Ma in quel pomeriggio di primavera un impulso l’aveva spinta ad essere curiosa, troppo curiosa. S’era seduta sulla vecchia poltrona in pelle, vicino alla libreria, certa che il signor Giorgio sarebbe tornato tardi. E aveva letto, pagina dopo pagina. Tutto le parole erano entrate come lame nella sua mente, trafiggendo alcune certezze e travolgendo il suo stato d’animo. Finita le lettura, aveva appoggiato i fogli sul tavolo in maniera disordinata, e li aveva riguardati, uno per uno.

Capiva che se quelle parole scritte fossero uscite da quella villa sarebbe stato uno scandalo. E tra chi conta, gli scandali sono come un tornado, può spazzare via denaro, fama e onore. Ad un certo punto le si era accesa nella mente un’idea del tutto nuova, un’idea irrazionale e dai toni un po’ spietati.

Sapeva di non essere una donna astuta, era solo una persona semplice, cresciuta in una vecchia cascina tra le campagne. Aveva imparato a cucire e a pulire la casa, e alla morte di suo padre aveva cercato lavoro in una sartoria. Non aveva avuto grandi occasioni nella vita, e l’incontro con Seamy era stato del tutto fortuito. Il loro rapporto era nato così, per caso. Seamy faceva il garzone per la signora Maraschini, proprietaria della sartoria, e veniva in bottega quasi tutti i giorni a consegnare alcuni rotoli di cotone. Marta ne era rimasta affascinata, anche se c’era in lui qualcosa di taciuto e pericoloso. Dopo poche settimane di corteggiamento, i due avevano deciso di mettersi insieme. Decisione affrettata e poco ragionata, ma Marta s’era innamorata e voleva condividere la sua esistenza con quell’uomo. Guardandosi alle spalle, in quei ventidue anni trascorsi con lui, non vedeva più l’amore che aveva provato inizialmente, e sapeva che Seamy era stato solo affascinato da lei, niente di più. Col tempo, la donna era diventata succube di quella costante presenza, e i sorrisi s’erano trasformati in sguardi assenti e spesso sprezzanti.

Ora, con quelle lettere tra le mani, la donna sapeva che poteva avere una possibilità per riscattare quell’amore perduto. Se avesse fatto sapere a Seamy della sua scoperta, lui avrebbe trovato il modo di adoperarla a loro favore, portando un po’ di soldi a casa. Egli amava solo quelli, lo sapeva benissimo. “I soldi hanno fatto la fortuna e la gioia di chiunque” ripeteva sempre “Noi siamo dei miserandi, soprattutto per colpa tua. Per il tuo lavoro sono rimasto in questo squallido paese, per le tue lune ho rifiutato molte offerte di lavoro. E tu.. tu non mi hai mai dato neppure un figlio. Se avessi avuto qualcuno ad aiutarmi nel lavoro nei campi, a quest’ora non avrei la schiena a pezzi e non sarei costretto a fare questi orari massacranti. Un figlio.. neppure quello ha saputo darmi!”

Ripensando a quelle parole, Marta trasalì. Sofia se ne accorse, e la guardò con uno sguardo differente. La donna si voltò verso quegli occhioni che la fissavano e vide in quella fanciulla la figlia che non era mai riuscita ad avere. Non poteva. E questo le pesava sul cuore come un macigno. Sapeva che la maternità avrebbe potuto risvegliare in lei quella femminilità che in molti casi le era stata negata. Ma dopo due aborti spontanei, i medici le avevano assicurato che non sarebbe più stata in grado di avere figli.

Sofia le si avvicinò, mentre i minuti scorrevano velocemente.

“Che cosa c’è che non va, Marta?” chiese la bambina con una dolcezza rinata.

“Mi sento troppo, troppo in colpa per tutto quello che ti sta accadendo.. piccola.. tua madre ti ha lasciato qui, in mezzo a questa confusione.. ti ha lasciato a tuo nonno, che non ha la minima intenzione di dare importanza ai sentimenti. Lui non vuole perdere il suo denaro, questo conta per lui. Ma ora… io.. io non posso tenerti qui , come una prigioniera. Ho sbagliato. Sono stata maledettamente una stupida e ti ho messo in mezzo.. ma forse non è troppo tardi per salvarti. Potremmo.. potremmo fuggire insieme. Ti porto via da questo posto..si, potrei salvare la situazione e scappare da questo inferno!”

Marta era infervorata e preoccupata allo stesso tempo, e sul suo viso tutto ciò era evidente.

Sofia le si avvicinò con cautela, si sporse verso l’orecchio della donna e le sussurrò “.. fingi di volare..”.