Fingevo di volare
La piccola Sofia si guardava intorno, incredula. Non riusciva a trattenere le lacrime, scendevano come pioggia e rigavano le sue piccole guance arrossate.
Lo sapeva bene, non doveva strillare, doveva essere forte. Ma aveva assistito a troppe brutte cose, e tutto nei suoi ricordi pesava come un macigno. Tutto sembrava tornare prepotentemente in superficie .
“Vuoi stare zitta un poco, per l’amor del cielo?” le disse improvvisamente una voce femminile proveniente da dietro la porta sbarrata. “Lo sai che siamo nei guai, lo sai che purtroppo non ci piace tenerti prigioniera, ma abbiamo dannatamente bisogno di soldi e questo è l’unico modo per ottenerli.”
Sofia non capiva. Non capiva il mondo dei grandi, non capiva quel ronzio che assordava quella stanza semivuota e non capiva cosa fosse il denaro. Sapeva solo che quando un grande usava quella parola ci si poteva aspettare solo qualcosa di doloroso.
Si accovacciò nello stesso angolo in cui s’era addormentata precedentemente, e sollevò gli occhi umidi verso le fenditure tra le assi. Poteva intravedere piccoli fiori rossi dal lungo stelo e un cielo azzurro che le ricordava tanto casa sua. Quel grande cielo azzurro delle giornate d’estate, passate sotto la grossa quercia, a cantare e a giocare con sua madre. Quei tempi erano davvero troppo lontani, e troppo belli per non fare male. Fu in quel momento che le tornò in mente quel sogno. Tornava sempre, anche nei momenti più strani.
Sognava sempre di essere in cima alla collina, con il suo grosso fiocco verde che le svolazzava sulla testa. Guardava verso il basso, poi verso l’alto e vedeva sempre, ogni volta, piccole farfalle girare una intorno all’altra, come in una magica danza rituale. E una voce sussurrava sempre “Fingi di volare, vola con ritmo e lasciati andare, pioggia e vento non ti potranno toccare.. fingi di volare.” Sembrava una filastrocca, una cantilena detta con estrema enfasi e nel sogno sortiva efficacemente il suo effetto. Sofia sognava di volteggiare su una campagna dal giallo intenso, e il sole non la bruciava, anzi, la baciava con un tepore delicato. Era l’unico momento in cui tutto era in pace, silenzioso, dove si stava bene.
Sofia ripeté tra le labbra “..fingi di volare” e sorrise. Un piccolissimo sorriso tra gocce salate sul dolce viso da bambina.
Il chiavistello sussultò un paio di volte, facendo un grande baccano nella stanza. La porta si spalancò e Marta entrò con un bicchiere di latte tra le mani.
“Sofia, piccola, ti ho portato qualcosa da bere.”
“Non voglio niente.” replicò duramente la bambina, voltando lo sguardo dall’altra parte.
“Devi bere un po’ di latte, vedrai che ti farà bene. Devi metterti un po’ in forze, se vuoi davvero superare questa situazione.”
“La colpa è solo vostra. E io voglio uscire, voglio tornare da mio nonno.. voglio vedere mia madre! Ma perché sono qui dentro, perché siete così cattivi da tenermi rinchiusa in una cantina?” urlò con forza la piccola Sofia, mentre nuove lacrime scendevano dai suoi grandi occhi celesti.
“Io.. io sono disperata quanto te, piccola. Ma la tua famiglia ci deve parecchio, la tua famiglia deve darci del denaro se ti rivuole indietro. Abbiamo fatto anche troppo negli ultimi anni. Abbiamo lavorato per tuo nonno, gli abbiamo accudito la casa e il grande giardino. Sono stata la sua governante per vent’anni, e lui non ne ha mai voluto sapere di essere gentile. Mai. Mi ha sempre trattata con disprezzo, solo perché lui poteva contare sul suo dannato denaro e io sono solo una sguattera cresciuta in provincia. Villa Cantinari è stata davvero un luogo sereno per me, anche se non ho mai veramente avuto un attimo di vera pace.” La donna girò il volto dall’altra parte, fissando il muro, in una sorta di vuota contemplazione. Il suo sguardo era pieno di dolore. Aveva circa quarant’anni e mostrava ancora con disinvoltura la sua bellezza, ma tutta la sua forza d’animo s’era spenta come una fiamma bagnata dalla pioggia. Le piccole rughe d’espressione si erano tramutate col tempo in profondi segni di stanchezza, i suoi occhi color nocciola erano divenuti due vitrei e silenti specchi di una vita assente, non partecipe.
Si sentiva in colpa. Non era il tipo di donna capace di rinchiudere una bambina in una cantina. Ma Seamy le aveva bruscamente ripetuto che “il denaro li avrebbe salvati, avrebbe salvato il loro rapporto, li avrebbe messi in condizioni migliori.”
Sapeva bene che tutto doveva rimanere segreto. Tante volte si era trovata tra le strade del piccolo paese fermando l’impulso di raccontare tutto al primo passante, troppe volte si era trovata ad un passo dalla liberazione, ma, come ben sapeva, era troppo codarda e succube di quell’uomo arrogante per riuscire a fare un passo così rischioso.
Erano già passati due mesi da quando, tra i cassetti dello studio del signor Giorgio Cantinari, erano sbucate quelle lettere in carta filigranata. Delle lettere che sembravano importanti, che erano state riposte con una cura maniacale. Lettere che forse avrebbero dovuto ricevere una collocazione diversa. Non sarebbero dovute capitare nelle mani sbagliate. Marta lo sapeva bene che come brava governante tutto ciò che veniva toccato doveva essere riposto con la stessa cura iniziale. Ma in quel pomeriggio di primavera un impulso l’aveva spinta ad essere curiosa, troppo curiosa. S’era seduta sulla vecchia poltrona in pelle, vicino alla libreria, certa che il signor Giorgio sarebbe tornato tardi. E aveva letto, pagina dopo pagina. Tutto le parole erano entrate come lame nella sua mente, trafiggendo alcune certezze e travolgendo il suo stato d’animo. Finita le lettura, aveva appoggiato i fogli sul tavolo in maniera disordinata, e li aveva riguardati, uno per uno.
Capiva che se quelle parole scritte fossero uscite da quella villa sarebbe stato uno scandalo. E tra chi conta, gli scandali sono come un tornado, può spazzare via denaro, fama e onore. Ad un certo punto le si era accesa nella mente un’idea del tutto nuova, un’idea irrazionale e dai toni un po’ spietati.
Sapeva di non essere una donna astuta, era solo una persona semplice, cresciuta in una vecchia cascina tra le campagne. Aveva imparato a cucire e a pulire la casa, e alla morte di suo padre aveva cercato lavoro in una sartoria. Non aveva avuto grandi occasioni nella vita, e l’incontro con Seamy era stato del tutto fortuito. Il loro rapporto era nato così, per caso. Seamy faceva il garzone per la signora Maraschini, proprietaria della sartoria, e veniva in bottega quasi tutti i giorni a consegnare alcuni rotoli di cotone. Marta ne era rimasta affascinata, anche se c’era in lui qualcosa di taciuto e pericoloso. Dopo poche settimane di corteggiamento, i due avevano deciso di mettersi insieme. Decisione affrettata e poco ragionata, ma Marta s’era innamorata e voleva condividere la sua esistenza con quell’uomo. Guardandosi alle spalle, in quei ventidue anni trascorsi con lui, non vedeva più l’amore che aveva provato inizialmente, e sapeva che Seamy era stato solo affascinato da lei, niente di più. Col tempo, la donna era diventata succube di quella costante presenza, e i sorrisi s’erano trasformati in sguardi assenti e spesso sprezzanti.
Ora, con quelle lettere tra le mani, la donna sapeva che poteva avere una possibilità per riscattare quell’amore perduto. Se avesse fatto sapere a Seamy della sua scoperta, lui avrebbe trovato il modo di adoperarla a loro favore, portando un po’ di soldi a casa. Egli amava solo quelli, lo sapeva benissimo. “I soldi hanno fatto la fortuna e la gioia di chiunque” ripeteva sempre “Noi siamo dei miserandi, soprattutto per colpa tua. Per il tuo lavoro sono rimasto in questo squallido paese, per le tue lune ho rifiutato molte offerte di lavoro. E tu.. tu non mi hai mai dato neppure un figlio. Se avessi avuto qualcuno ad aiutarmi nel lavoro nei campi, a quest’ora non avrei la schiena a pezzi e non sarei costretto a fare questi orari massacranti. Un figlio.. neppure quello ha saputo darmi!”
Ripensando a quelle parole, Marta trasalì. Sofia se ne accorse, e la guardò con uno sguardo differente. La donna si voltò verso quegli occhioni che la fissavano e vide in quella fanciulla la figlia che non era mai riuscita ad avere. Non poteva. E questo le pesava sul cuore come un macigno. Sapeva che la maternità avrebbe potuto risvegliare in lei quella femminilità che in molti casi le era stata negata. Ma dopo due aborti spontanei, i medici le avevano assicurato che non sarebbe più stata in grado di avere figli.
Sofia le si avvicinò, mentre i minuti scorrevano velocemente.
“Che cosa c’è che non va, Marta?” chiese la bambina con una dolcezza rinata.
“Mi sento troppo, troppo in colpa per tutto quello che ti sta accadendo.. piccola.. tua madre ti ha lasciato qui, in mezzo a questa confusione.. ti ha lasciato a tuo nonno, che non ha la minima intenzione di dare importanza ai sentimenti. Lui non vuole perdere il suo denaro, questo conta per lui. Ma ora… io.. io non posso tenerti qui , come una prigioniera. Ho sbagliato. Sono stata maledettamente una stupida e ti ho messo in mezzo.. ma forse non è troppo tardi per salvarti. Potremmo.. potremmo fuggire insieme. Ti porto via da questo posto..si, potrei salvare la situazione e scappare da questo inferno!”
Marta era infervorata e preoccupata allo stesso tempo, e sul suo viso tutto ciò era evidente.
Sofia le si avvicinò con cautela, si sporse verso l’orecchio della donna e le sussurrò “.. fingi di volare..”.